ESTRATTI CRITICI

ESTRATTI CRITICI

 

 

“... Di certo Livio Conta s’inserisce nell’attuale quadro dell’arte fantastica italiana, ma con una versione del tutto propria, indipendente e, per sua fortuna, estranea ai tardi recuperi della maniera surrealista e alle falsificazioni simboliste ascrivibili soltanto a un contesto revivalistico. è una voce, la sua, che risuona spontanea provenendo da una tradizione vissuta dall’interno ad ogni passo patita anche nelle sue impli- canze umane e sociali, e divenuta ormai nell’artista sostanza vitale...”

 

Carlo Munari - Milano 1977

 

 

“L’elemento simbolico è il fulcro della scultura di Livio Conta. Da trentino radicato nella sua terra, questo artista rifiuta un certo formalismo edonistico oggi diffuso. Preferisce, come ha sempre fatto, approfon- dire la tematica dell’uomo, scavando al di dentro, in modo da riportare alla luce quasi i gangli psichici, i più reconditi moti, aggrovigliata, scheggiata, dilacerata, anche se alla fine si presenta secondo una linea che diventa armonica. Dall’ambiguità delle forme all’espressività dei contenuti. Desiderio disperato di colloquio umano, profonda “pietas”... Questo artista schivo e taciturno, che lavora con un raro impegno estetico ed etico, cova dentro di sé, nelle braccia che modellano come nella mente che crea, una specie di forza primigenia, che finisce per lievitare all’interno delle sue opere. Qualcosa appunto si sprigiona dalla materia: un impulso che è anzitutto spirituale...”

 

Paolo Rizzi - Venezia 1983

 

 

“Da qualche tempo il lavoro di Conta si è animato di un motivo fra i più frequenti della letteratura anche religiosa e dei più difficili anche dal punto di vista tecnico: quello delle mani. La Bibbia di mani è piena (da quella di Dio che, michelangiolescamente, trasmette la vita ad Adamo a quelle di Gesù trafitte dai chiodi: da quelle imploranti a quelle benedicenti in ogni tempo e luogo); ma anche la vita quotidiana di ogni uomo si rifà a questa parte del corpo che è mezzo di lavoro, di implorazione, di carezza: e che è, infine, simbolo d’amore, di pace, di unione. Livio Conta di questo simbolo ha fatto un emblema, con tutte le implicanze ammonenti e provocatorie; così come è avvenuto nelle “scene” da lui predilette in pittura. Tuttavia con il passare degli anni e con un lavoro di ricerca e tenacia esemplari, egli ha saputo portare il suo discorso artistico al di là e al di sopra di ogni tentazione illustrativa, per affidare all’opera stessa, alla sua sostanza e forma la verità poetica e pienamente quindi dimostrativa. Mi riferisco in particolare ad alcune opere degli ultimi due anni, da “Messaggero” del 1986 alle “ Parabole” e a “Intesa” del 1988 le quali, rifacendosi al memorabile “Legami” del 1986, confermano il pieno raggiungimento di una perfetta, elegante e libera “modernità” espressiva, che trova in una tecnica magistrale nello sfruttamento dei mate- riali (e specialmente del legno) il miglior modo di “dire” in una lingua rinnovata e nuova quanto in periodi anteriori poteva risultare come compresso e al tempo stesso con trattenuta prepotenza proclamato.

... C’era poi memorabile il “capitolo” dei disegni: nei quali Conta ha sempre avuto ed ha una sua bella ed esemplare sapienza compositiva e grafica, ottenuta con il segno esatto e la variazione e l’aggiunta di colori. Molti dei suoi fogli, a se stanti o in preparazione di quadri o sculture, mi sembra manifestino molto bene, oltre alla capacità tecnica, una precisa maestria nel raffigurare un qualcosa di musicale e quindi di armonioso, e di gioioso anche: il che porta il ritmo del disegno e la composizione disegnata a una “stabilità” tutta moderna, e nutrita quindi e del passato e del presente, e libera nel contempo da quella letterarietà spesso viziosa che molte volte inquina buona parte dell’operare persino dei maestri più noti”.

 

Enzo Fabiani - Milano, 1989

 

 

“Non c’è un vallo tra pittura e scultura in Conta; né i suoi disegni, come avviene per la maggior parte degli scultori, che sono in genere ottimi disegnatori, sono lavori artistici di preparazione, di avvici- namento alla scultura. Pittura e scultura in questo grande artista trentino sono osmosi tra di loro ma, allo stesso tempo, perfettamente autonome. Su questo versante va valutata l’ultima produzione pittorica di Conta volta a esplorare l’anima della montagna per strade nuove, fuori da una tradizione paesaggistica che l’ha troppo spesso impoverita, ingabbiandola negli stereotipi”.

Renzo Francescotti - 1992

“Livio Conta usa il linguaggio delle esperienze reali per lavorare i materiali più diversi, per frequen- tare i luoghi della natura e del quotidiano che nel bosco e nel legno assumono una connotazione simbolica. Le sue immagini strettamente legate alla figurazione, illustrano una realtà collettiva che appartiene alla memoria e alla conoscenza dell’uomo. Esse si traducono prima che nell’azione dello scolpire, in quella del disegno. L’opera grafica mostra, infatti, una forte coerenza se rapportata alla pittura e alla scultura. Sulla carta le linee si muovono sicure, prive di qualsiasi timore, a descrivere il mondo umano e il suo sentimento. Nascono composizioni preziose dove la presenza femminile è avvolgente, costante, certa: metafora della maternità sia in senso religioso che in senso popolare. è però una presenza che col tempo si arricchisce di oggetti, di forme che ne interrompono la totalità dell’essere. Si sviluppano - a volte - di fronte ai volti sagome di maschere, sottili interrogativi che l’uomo si pone o che si trova addosso come un accessorio irrinunciabile. La riflessione dell’autore, il pensiero che si interroga sul significato delle cose, sulla necessità di dare una risposta agli umori e ai sentimenti, accompagna l’essere nel suo definirsi come modello.

... Conta lavora la materia nel suo interno portando in superficie le imperfezioni naturali che diven- tano segno di sensazioni composite, a volte contrapposte. Nella scultura si evidenziano le forme che caratterizzano il percorso dell’autore: lunghi fili, solidi cordami che tengono insieme, o meglio strutturano la volumetria delle figure, delle composizioni simboliche.

Le parti si ritorcono, si muovono nello spazio allargandosi in esso, liberando le parti in maniera da cogliere la realtà dell’atmosfera. I legami si uniscono alla materia bucata, diventano parte del pieno e del vuoto, di quel gioco prezioso che viene reso necessario per scoprire la natura dell’uomo...”

 

Giovanna Nicoletti - 1995

 

 

“Livio Conta è un pittore, plastificatore, ma soprattutto autentico scultore del legno. Ne conosce i segreti, la vitalità intima, le innervature, i nodi, gli andamenti, la storia, i segni del tempo e a tutto ciò si adegua, ricavando opere di grande “naturalezza”, nonostante la materia sia incisa, scavata, scolpita. Si segnala per come soffre la materia, alla stregua di un campo di fermentazione e di tensione dina- mica della figura, la quale si moltiplica nello spazio come un’eco plastico-sonora: ritmo che cresce e si ricarica su se stesso, si moltiplica (mani), espandendosi nello spazio, dilatando i riverberi del significato nei movimenti della materia. Una grande perizia artigianale, autentico “mestiere”, sostiene la sua passione di narratore plastico per innervature essenziali, eppure fortemente espressive, ora con riferimenti quasi “meccanici”, ora del tutto organici, ma stemperati nello spazio, nell’atmosfera, così come accade nella sua pittura, la quale sembra offrirsi in una singolare continuità tra fisico, corporeo e spaziale, spirituale, e tra spazio intimo e spazio cosmico: il che ancor più sottolinea il fatto che per Livio Conta la materia è energia in movimento, in metamorfosi, materia che cattura e modula lo spazio in racconto figurale ed è catturata e modulata dalla luce in andamento ritmico, in forma armonica, musicale...”

 

Giorgio Segato - 2000

 

 

"....Ma intendiamo discutere di scultura. Della scultura di Livio Conta. Che coniuga questa doppia matrice: l’inflessibilità di forme nordiche, dal modellato verista a volte aspro, con il calore e la morbidezza mediterranea. Il dettaglio di panneggi movimentati in pieghe contratte, con la figurazione abbinata allo slancio geometrico astratto in cui la creatività pare a volte trattenersi e indugiare, rimandando così alla figura primaria. è sicuramente il legno, specialmente l’ulivo, il suo elemento vitale: anche qui, come non rapportare tale richiamo a una sacralità mediterranea, senza dimenticare la florida varietà arborea del Trentino? Da Mani, scultura degli anni ’70, traspare la maestria della plasticità di Livio, laddove è stato Picasso a chiosare che “la mano [dell’artista] si vede dalla mano”, ossia da come quel tale artista rende viva, su dipinto o tridimensionalmente, una mano. La realtà trasposta nella sublime finzione dell’arte, ombra platonica del vero. è l’Albero della vita, bronzo risuscitato sotto le spoglie di albero/colonna del mondo, dalle fronde caduche costituite da mani tronche, a indicare la strada intrapresa dallo scultore, con le domande, i quesiti che cercano adesso risposte altre, in libri dalle pagine infinite e in esperienze anch’esse infinite. Come nei volti degli uomini o nella bellezza antica dell’universo umano. Ne La grande disobbedienza,la chioma bronzea dell’albero ingloba un amalgama famelico di corpi e arti aggrovigliati, aggraticciati tra loro per evitare l’inesorabile caduta nel baratro della disumanità alienante, dell’essere altro da se stesso, indice di una modernità che ha imboc-

cato la strada in discesa, facile e aberrante del non-essere. Preghiera è conformata da una catena di mani le cui dita si intrecciano in modo caro e solidale, confermando il silenzio di un gesto rispecchiato nell’invocazione a Dio. E sono di nuovo le mani a col/legare madre e neonato ne La nascita, nodo affettivo tra la felicità di due mondi in divenire. Ecco, la poetica di Livio è un inno alla bellezza, tanto più sconcertan- te in quanto comprendiamo di essere circondati e assediati oggi da un’attrazione opprimente e insinuante per il “brutto”, da una opacità estetica che inquina ogni trasparenza fisica e morale. E comprendiamo pure la natura so- litaria dell’armonia che conduce verso gli altri. L’uno che si avverte unico malgrado la folla circostante. In questo modo il legno Analisi interiore rappresenta una donna inarcata e abbarbicata a una seggiola (una vera e propria seggiola), nel cui sembiante dai contorni levigati è rappresa una fuga astratta, mentre una profonda spaccatura lineare divide nel mezzo viso e collo in due solchi simili e antitetici, dove convivono sia l’Androgino di Platone - con l’assetata ansietà della coppia di vedere un giorno riunite le parti separate dal fulmine di Giove - che la schizofrenia moderna, tale da rendere estranei gli spiriti singoli creando altri doppi, altri noi stessi a noi sconosciuti. La maschera muta così in frattura tellurica allontanando cielo e terra. Carattere e natura dell’anima. E dell’amore.

L’arte di Livio Conta interpreta, con linguaggio moderno e contemporaneo, le radici dell’umano, radici che si trovano in alto, accanto alla cima delle montagne.

 

Luigi Marsiglia - 2012

 

 

Ci sono due uomini, due Artisti, finiti come Pinocchio nel ventre della balena, quello di una notte d’inverno degli anni ’70. Quegli anni caldi e di ghiaccio, come una pistola folle, gelo terrorista che a viso coperto ha appena sparato sulla vittima innocente caduta per sempre, in quella guerra assurda che ha seminato morte e orfani in cerca ancora di un per- ché. Come un aquilone volato via, come un padre, per sempre. La luce di quello

sparo è una stella che precipita e lascia una scia rossa, sopra il cielo della Val di Rabbi. Il botto sordo è l’ultima bottiglia di vino, stappata per salutare il ritorno del Maestro, la Musica, Arturo Benedetti Michelangeli. La sua cometa in una notte di note entra nell’atelier dell’Artista, Livio Conta. L’unico pittore scultore che ha avuto il coraggio di rompere il silenzio del Maestro e di eternarlo gelosamente su una tela. Come gli era riuscita quell’impresa al limite? Lo aveva seguito di nascostofin dentro la sua “tana”: lo studio di prova del Pianista. Si era appostato come un brigante gentiluomo che aspetta il passaggio imminente del sublime per tentare di catturarlo. Ma non aveva nulla tra le mani: né pennelli né spatole, neppure un sacco con sé per “rubare” solo un attimo di eterno sprigionato da quel suono. La musica celeste di quelle lunghe mani affusolate, come gatti, che si sdraiano leggeri sui tasti d’ebano e avorio e lasciano partire miagolii, accordati con l’universo. Possono due stanze della vita, così vicine eppure così lontane, all’improvviso, in una notte d’inverno degli anni ’70, diventare due suite sonore che imprigionano tutto ciò che di essenziale occorre per rendere un’esistenza un’opera d’arte? è quello che i due uomini si sono chiesti nel momento in cui i loro sguardi si sono riconosciuti e abbracciati. Il Pianista ha smesso di suonare nel momento esatto in cui l’occhio del Pittore ha spettinato il suo ciuffo di genio ribelle e un sentimento nuovo e inaspettato gli si è parato davanti agli occhi: l’Amicizia. Livio non era lì solo per ascoltare, nell’ombra rispettosa, la melodia unica e leggendaria di quello che a diciannove anni già chiamavano il “nuovo Liszt”, ma era andato a cercare quei frammenti d’anima, in comune, che servivano all’Artista per portare a termine la notte: l’opera. “Quando terminò di esercitarsi, si accorse di me, mi fissò e poi, con un sorriso, mi invitò a sedere. Da quel giorno diventammo amici”, ricorda Livio con l’orgoglio e la gioia di un cuore che ieri come oggi trabocca di eterna gratitudine. L’uomo che non permetteva mai a nessuno di avvicinarsi alla sua ombra, aveva scelto lui, come interlocutore privilegiato in quel minuscolo ombelico del mondo che è rimasta la Val di Rabbi. Solo Livio da quel momento aveva accesso ai suoi silenzi misteriosi e a quel rifugio dal mondo insensibile e impoetico che troppe volte aveva offeso la Musica. Quei chiaroscuri, quegli adagi che lasciavano il posto ai presto con fuoco della sua interiorità eccessiva, volta alla ricerca di una verità prossima alla perfezione del Creato. Laudi mattutine, esercizio monastico e ascetismo condiviso tra i due Artisti che, quando sono passati dal distante “Lei” al fraterno “tu”, hanno riscoperto la gioia del sorriso pieno, non più eclissa- to dagli equinozi di guerra. Di colpo le notti corte dell’inverno sono diventate infinite, insonni. Fino all’alba a parlare della vita e della missione che ciascuno di noi ha su questa terra. Discorsi riscaldati dal focolare sincero dell’allegra compagnia e la bottiglia danzante al ritmo del Bolero. zingarate improvvi- se, sotto una luna ancora benevola che osservava due giullari del dio della creatività che vestiti come clown mettevano in scena il loro teatrino scanzonato dell’assurdo. Livio che con una pelliccia da donna – quella della segretaria del Maestro – accompagna Benedetti Michelangeli allo spaccio del paese di Monclassico (una musica già nel nome) a prendere le sigarette... Al ritorno, ebbri come studenti freschi di festa di laurea, non vedono la montagnola di sabbia davanti alla casa dell’Artista e come bambini crollano sopra al “castello”, affogando in una cascata di risate. Un ruscello sghignazzante, un piccolo mira- colo, un concerto di risate sulla bocca, troppo spesso sigillata dall’estasi e dal tormento, dell’ineffabile e controllato Miche- langeli. Momenti unici che Livio ha vissuto lì, nella provincia, ai margini delle luci della ribalta metropolitana e dai riflettori accecanti della Ville Lumière in cui portò, una sola volta, come un Paganini che non ripete, la testimonianza vitale della fusione tra il Maestro e l’Artista (Salle Pleyel de Paris, 9 dicembre 1973). Gloria e seduzione famigliare, assieme a sua moglie Maria e al piccolo Giorgio, per il quale il Maestro chiese di poter fare da padrino. La generosità del genio che sfuggiva a ogni catalogazione e che era impossibile fermare un solo istante, senza una sua precisa, quanto remota, volontà di resa condizionata. Eppure Livio è riu- scito dove nessuno mai si sarebbe spinto. Senza pretesa alcuna, ha ottenuto che il Maestro sostasse spontaneamente nella sua casa e che aprisse lo scrigno segreto dei suoi pensieri, più alti delle cime dolomitiche che, all’alba, salutavano irradiate di sole i loro occhi stanchi, colmi però di una felicità anco- ra oggi indescrivibile. Poi c’è stato il tempo del “modello”, dei ritratti ottenuti senza che il Maestro fosse costretto a una staticità che per lui sarebbe stata la richiesta dell’ingiusta condanna a morte. Ecco allora che Livio Conta nella calda stanza del Pittore, riesce prodigio- samente a fermare gli attimi in cui i demoni di Liszt, di Chopin, di Debussy e dell’amatissimo Ravel, entrano, salutano e stringono le mani al loro prescelto. Il giovane predestinato che fin da ragazzo sapeva con immenso stupore che il compito assegnatogli era far rivivere la

musica dei Maestri e portarla a vette ancora più elevate, irraggiungibili ad altre mani. è nella ricerca costante del trascendente che tacitamente i due amici stipulano un patto di sangue che si basa prima di tutto sul rispetto assoluto dell’Arte. Due guer- rieri della coerenza, Livio e Arturo, hanno chiuso gli occhi e hanno immaginato che musica, carta, colori e materia potessero diventare carne: qualcosa di più grande e purtroppo di impercettibile all’uomo che cammina a testa bassa in un quotidiano di ombre dolorose e umilianti.

“Niente testimonia con più forza la povertà di mezzi di cui c’è bisogno, affinché lo spirito si levi al punto più alto di ciò di cui è capace”, ha scritto Yves Boneffoy per descrivere il percorso artistico-esistenziale di Alberto Giacometti. Un uomo e un Artista che forse avrebbe partecipato volentieri a quell’ultima cena. Quando il Ma- estro e il Pittore si alzarono da tavola, era finito il vino della verità, ma dallo stesso calice gli bastò bere un sorso di neve per ricominciare a sognare... Di un giorno in cui – si promisero solo con le parole pronunciate dai loro occhi – afferreremo la perfezione con le nostre mani e la terremo qui accanto, per tutti gli inverni a venire, come questo gatto che ci sorride sotto i baffi, mentre si addormenta felice, sopra a un pentagramma in cui risuona tutta una vita.

 

Massimiliano Castellani -2012